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Paolo Rossi Castelli23 ott 20202 min read

Covid-19 e inquinamento dell’aria, intrecci pericolosi | Fondazione IBSA

L’inquinamento atmosferico sembra avere un legame piuttosto stretto con la gravità del Covid-19.

Lo conferma uno studio della Emory University di Atlanta (Stati Uniti), pubblicato sulla rivista scientifica The Innovation (gruppo Cell).

I ricercatori hanno analizzato i principali inquinanti atmosferici urbani, tra cui le polveri sottili (in sigla, PM2.5), il biossido di azoto (NO2) e l’ozono (O3), in 3.076 contee degli Stati Uniti (sulle 3.142 totali) da gennaio a luglio, e hanno sovrapposto questi dati agli effetti del Covid-19 nella popolazione residente.

In particolare, hanno esaminato il tasso di mortalità (cioè il numero di decessi tra le persone a cui era stato diagnosticato il Covid-19) e anche il numero di morti per Covid-19 in rapporto alla popolazione.

Ebbene, fra gli inquinanti analizzati, il biossido di azoto ha mostrato la più forte correlazione con il numero di morti per Covid-19: secondo i ricercatori, un aumento di 4,6 parti per miliardo (ppb) di NO2 nell’aria è associabile a un aumento della mortalità dell’11,3% fra le persone colpite dal Covid-19, mentre il numero di morti per coronavirus rispetto alla popolazione sale del 16,2%.

Sul versante opposto, una riduzione di 4,6 ppb di NO2 nelle contee americane avrebbe potuto prevenire, secondo i ricercatori, 14.672 morti (sui 138.552 totali) fra coloro che erano risultati positivi al virus.

L’ossido di azoto, lo ricordiamo, viene prodotto da tutti i processi di combustione ad alta temperatura (impianti di riscaldamento, motori dei veicoli, combustioni industriali, e altro ancora), e provoca irritazione della mucosa dei bronchi, alterando in alcuni casi la funzionalità respiratoria e la reattività bronchiale (se l’esposizione a forti concentrazioni di NO2 è prolungata).

I ricercatori della Emory University hanno invece osservato un’associazione marginale fra l’esposizione alle polveri sottili PM2.5 e il tasso di mortalità delle persone colpite dal Covid, mentre non sono state trovate associazioni degne di nota con l’ozono.

“I risultati del nostro studio – scrivono i ricercatori sulla rivista The Innovation – invitano ad attivare azioni mirate di salute pubblica per proteggere la popolazione dal Covid-19 nelle regioni inquinate con livelli di NO2 storicamente elevati. La prosecuzione degli sforzi per ridurre le emissioni del traffico e altre forme di inquinamento atmosferico potrebbe diventare una componente importante per ridurre anche il rischio di mortalità da Covid-19”.

Questo studio, aggiungiamo noi, aiuta anche a spiegare perché zone fortemente inquinate, come l’area di Wuhan in Cina, o ampie aree della Pianura Padana in Italia, siano state fra le prime a far registrare numeri particolarmente alti di pazienti-Covid, con esiti anche fatali.

Sui rapporti fra inquinamento e Covid-19 è uscito anche un secondo studio, realizzato da ricercatori italiani (Università di Bari e Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) e russi (Università statale di Tomsk), e pubblicato sulla rivista Environmental Pollution.

I risultati sono analoghi a quelli della Emory University per quanto riguarda il senso generale, ma diversi nei dettagli: secondo questo studio, infatti, anche il PM2.5, oltre al biossido di azoto, avrebbe un ruolo significativo. I ricercatori hanno fatto ricorso all’intelligenza artificiale, confrontando le zone italiane a più elevato inquinamento con la mortalità. Così si sono resi conto che le emissioni di polveri sottili associate a industrie, aziende agricole e traffico stradale hanno un forte collegamento con la gravità della malattia, e possono svolgere anche un ruolo predittivo: nelle zone dove l’aria è peggiore, il Covid-19 sarà più crudele.

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Paolo Rossi Castelli

Giornalista dal 1983, Paolo si occupa da anni di divulgazione scientifica, soprattutto nel campo della medicina e della biologia. È l'ideatore dello Sportello Cancro, il sito creato da corriere.it sull'oncologia in collaborazione con la Fondazione Umberto Veronesi. Ha collaborato per diversi anni con le pagine della Scienza del Corriere della Sera. È fondatore e direttore di PRC-Comunicare la scienza.

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