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Paolo Rossi Castelli07 ott 20214 min read

E adesso ecco i vaccini anti-Covid a DNA

Un’azienda farmaceutica indiana ha ottenuto il via libera per commercializzare un vaccino molto diverso da quelli usati finora. Potrebbe essere l’apripista di una nuova categoria di medicinali. 

Si chiama ZyCoV-D, ed è appena stato approvato dalle autorità sanitarie indiane, contro il Covid, per le persone che hanno più di 12 anni. Ma non si tratta di un vaccino come gli altri, perché - ed è la prima volta al mondo - utilizza un frammento di DNA, e non di RNA messaggero (come invece fanno Pfizer e Moderna), per spingere le nostre cellule a produrre la proteina spike del coronavirus e mettere così in allerta il sistema immunitario, preparandolo a un eventuale incontro con il virus “vero”.

Questa tecnica (come quella dei vaccini a RNA, d’altronde) era allo studio dagli anni ‘90, ma fino al 2020 non era approdata all’impiego su larga scala nell’uomo e non aveva ottenuto il via libera delle autorità, perché non aveva fornito i risultati sperati. Poi, con l’arrivo della pandemia e degli ingentissimi finanziamenti messi a disposizione dalle istituzioni europee e americane, la Ricerca è riuscita a fare il salto.

DNA e RNA: come agiscono?
Qual è l’elemento innovativo dei vaccini a DNA, rispetto a quelli a RNA messaggero? L’RNA è una molecola-stampo del DNA, che mette in pratica le istruzioni contenute nel codice genetico (in altre parole: che trasforma le informazioni genetiche del DNA in proteine). Il DNA, invece, è a tutti gli effetti “il codice e si trova nel nucleo delle cellule, mentre l’RNA, dopo una rapida permanenza all’interno del nucleo, si trasferisce nel citoplasma (la parte liquida, restante, della cellula stessa). È stata proprio la necessità di far entrare il frammento di DNA nel nucleo a rendere particolarmente complicata, dal punto di vista tecnico, la creazione di questo tipo di vaccini. Più facile, invece (anche se i problemi certo non mancano...) è aprire le porte del citoplasma all’RNA.

I ricercatori della Zydus Cadila (l’azienda indiana che ha realizzato ZyCoV-D) sono riusciti a ottenere l’importante risultato puntando sulle cellule del sistema immunitario che si trovano subito al di sotto dello strato esterno della cute: queste cellule sono molto reattive e pronte a inglobare qualunque entità estranea nel proprio nucleo. Per fare in modo che l’incontro si verifichi realmente (che il vaccino, cioè, venga catturato e “mangiato” da quelle particolari cellule del sistema immunitario, e che dunque il frammento di DNA entri nel loro nucleo), è necessario somministrare ZyCoV-D con un sistema diverso, rispetto agli altri vaccini: non più un’iniezione nei muscoli del braccio, ma una somministrazione sottocutanea, per via transdermica, come si dice in termine tecnico. In pratica - spiega la rivista scientifica Nature - il vaccino viene somministrato utilizzando un dispositivo senza ago premuto contro la pelle, che la perfora (senza dolore) e crea un flusso fine di fluido, ad alta pressione.

Un vaccino più robusto rispetto ai concorrenti
Dopo le prime sperimentazioni positive in laboratorio e sugli animali (da tempo i vaccini a DNA vengono utilizzati per uso veterinario, soprattutto per i cavalli, contro altre malattie), i ricercatori indiani hanno “testato” il nuovo vaccino anti-Covid sugli uomini. I risultati ottenuti, pur non essendo ancora particolarmente positivi, appaiono comunque incoraggianti e aprono le porte, scrive Nature, all’uso di questa tecnica anche in ambiti più ampi, oltre al Covid.

ZyCoV-D richiede tre somministrazioni ed è facile da produrre e da conservare, perché resta stabile a temperature anche molto più elevate rispetto ai vaccini a RNA (che invece devono rimanere nei congelatori), circostanza che lo rende particolarmente indicato per i Paesi dove i sistemi di refrigerazione non sono sempre accessibili.

Per quanto riguarda l’efficacia, i dati ottenuti su 28.000 persone mostrano che tra i vaccinati i casi di Covid sono stati 21, mentre tra coloro che avevano ricevuto il placebo 60. Ciò significa che il vaccino ha offerto una protezione del 67% dalle forme sintomatiche della malattia (una copertura lontana da quella offerta dai vaccini a RNA, ma relativamente vicina a quella dei vaccini a vettore virale, come Johnson & Johnson e AstraZeneca).

Va detto che secondo alcuni osservatori il processo di approvazione è stato troppo rapido, prima ancora della pubblicazione dei dati definitivi della sperimentazione, ma l’azienda e le autorità sanitarie indiane hanno risposto che invece questi dati ci sono, e che saranno presto resi noti. Considerata la situazione del Paese, con un numero ancora altissimo di contagi - hanno aggiunto le autorità - si è preferito ampliare la disponibilità di vaccini senza attendere oltre.

Il DNA aggiunto non entra nei cromosomi
Ma può essere rischioso inserire nel nucleo delle nostre cellule un frammento nuovo di DNA, per “costringerle” a sintetizzare la proteina spike? Assolutamente no, sostengono i ricercatori, perché il DNA viene fornito alle cellule dal vaccino sotto forma di filamenti circolari chiamati plasmidi, che vengono subito convertiti in RNA e si spostano nel citoplasma. Questo RNA, poi, produce la proteina spike, che a sua volta attiva il sistema immunitario. “I plasmidi - scrive Nature - in genere si degradano entro alcune settimane o mesi, e comunque l'immunità rimane”.

Ma c’è anche un’altra considerazione da fare: non è possibile, per le leggi della biologia, che i plasmidi introdotti nell’organismo con il vaccino entrino nei nostri cromosomi, modificando il DNA “principale”. I plasmidi sono ben conosciuti, perché vengono utilizzati da anni anche in molti altri settori della Ricerca (come “vettori” di varie sostanze), e hanno un loro percorso del tutto autonomo da quello del DNA principale.

L’impossibile integrazione nel DNA vero e proprio, aggiungiamo noi, andrà però spiegata con estrema chiarezza e con un’ampia documentazione al grande pubblico di non addetti ai lavori, quando questi vaccini arriveranno anche in Europa, per evitare fraintendimenti su un tema molto delicato come quello legato al nostro codice genetico, appunto.

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Paolo Rossi Castelli

Giornalista dal 1983, Paolo si occupa da anni di divulgazione scientifica, soprattutto nel campo della medicina e della biologia. È l'ideatore dello Sportello Cancro, il sito creato da corriere.it sull'oncologia in collaborazione con la Fondazione Umberto Veronesi. Ha collaborato per diversi anni con le pagine della Scienza del Corriere della Sera. È fondatore e direttore di PRC-Comunicare la scienza.

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