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Paolo Rossi Castelli06 nov 20203 min read

Carne “coltivata” per ridurre i guai degli allevamenti | Fondazione IBSA

La carne coltivata in laboratorio fa un nuovo passo avanti, e tende ad assomigliare sempre più a quella “naturale”.

Lo conferma uno studio della Tufts University di Boston (Stati Uniti), pubblicato sulla rivista scientifica Metabolic Engineering.

Cos’è la carne coltivata (in inglese cultured meat)?

È costituita da cellule muscolari – oppure cellule staminali, a seconda delle tecniche – prelevate ad animali (in particolare a mucche, maiali e tacchini), che vengono poi fatte moltiplicare in grande quantità, con tecniche molto avanzate, all’interno di appositi apparecchi chiamati bioreattori, fino a costituire una sorta di bistecca, anche se di forma e consistenza un po’ diverse rispetto a quelle della carne di macelleria. Anche il colore, in verità, appare differente: più vicino al bruno-grigio, per l’assenza di sangue.

Ma, al di là dei problemi estetici, la carne coltivata in laboratorio è costituita da cellule biologiche autentiche (non è un prodotto di sintesi chimica e neppure la cosiddetta carne vegana, ottenuta con fibre vegetali).

Secondo gli esperti, potrà costituire entro tempi abbastanza brevi una valida alternativa alla carne classica, anche se qualcuno potrà trovare strano mangiare una bistecca di questo tipo.

In ogni caso, sono numerosi gli istituti di ricerca e le aziende, nel mondo, che stanno lavorando al progetto di carne pulita, come viene anche definita la carne coltivata, con potenziali risultati di alto valore nei confronti della protezione ambientale e del benessere degli animali.

Per ottenere la carne coltivata, infatti, non vengono uccisi maiali, vitelli o tacchini, ed è sufficiente un consumo d’acqua irrisorio, rispetto a quello richiesto dagli allevamenti industriali. In più, questo sistema consentirebbe di risparmiare l’enorme quantità di vegetali destinata ad alimentare gli animali che vengono poi macellati, per trarne le bistecche. Ma non basta: la carne coltivata non contiene nessuna delle sostanze che possono rendere nociva quella tradizionale, come antibiotici, ormoni o fitofarmaci.

Tutto bene, allora?

No, perché la creazione di questo tipo di carne aveva, fino a poco tempo fa, costi elevatissimi (il primo hamburger “coltivato”, che l’Università di Maastricht in Olanda ha presentato nel 2013, costava ben 250.000 euro), e solo recentemente i prezzi sono scesi, raggiungendo valori più vicini a quelli della carne di allevamento, ma sempre assolutamente fuori mercato, almeno per adesso. Si parla di 500 euro per un hamburger da 140 grammi, anche se alcuni imprenditori prevedono un’ulteriore discesa a 50 euro, o verso importi ancora più bassi.

Soprattutto negli Stati Uniti stanno nascendo stabilimenti per la produzione su larga scala di carne coltivata, e questo consentirà di ridurre sicuramente il costo finale. Rimane aperto, però, il problema della consistenza e delle capacità organolettiche: essendo costituita solo da cellule muscolari, senza gli altri componenti tipici del “prodotto” tradizionale (sottili strati di grasso, collagene, elastina, e altri), la carne coltivata tende a risultare troppo asciutta e compatta. Numerosi tentativi sono in corso per ottenere “impalcature” che consentano alle cellule muscolari di crescere in laboratorio assumendo una forma tridimensionale simile a quella della carne tradizionale, e anche per migliorare il sapore. Molte aziende stanno combattendo fra loro a suon di brevetti, nel tentativo di ottenere il prodotto più gradevole (per saperne di più clicca qui).

Nell’ambito di questa competizione, i bioingegneri della Tufts University hanno provato a conferire alla carne coltivata anche un valore nutrizionale di qualità superiore, grazie all’inserimento di sostanze adatte a gruppi specifici di persone, o benefici per tutti.

Sono così riusciti a ottenere quella che hanno chiamato Golden Meat, richiamando quanto era stato fatto molti anni fa con un riso geneticamente modificato per contenere la vitamina A, il Golden Rice. In particolare, come riferisce la rivista Metabolic Engineering, hanno inserito nelle cellule di manzo i geni vegetali che regolano la produzione di beta carotenoidi (fitoene, licopene e beta carotene), precursori della vitamina A presenti, fra gli altri, nelle carote e nei pomodori. Questa “aggiunta” – sostengono gli studiosi – non ha modificato la struttura delle cellule ma, nello stesso tempo, ha conferito alla carne coltivata una notevole capacità antiossidante.

Studi di questo tipo, ovviamente, aprono anche molti problemi etici: quanto è giusto modificare geneticamente una cellula animale? E quali ripercussioni potranno avere sull’organismo umano tali cambiamenti?

Solo nei prossimi mesi/anni si potrà capire se questa via, sulla quale nel mondo si stanno investendo ingenti risorse, sarà davvero praticabile, e quale sarà l’accoglienza che le riserverà il pubblico.

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Paolo Rossi Castelli

Giornalista dal 1983, Paolo si occupa da anni di divulgazione scientifica, soprattutto nel campo della medicina e della biologia. È l'ideatore dello Sportello Cancro, il sito creato da corriere.it sull'oncologia in collaborazione con la Fondazione Umberto Veronesi. Ha collaborato per diversi anni con le pagine della Scienza del Corriere della Sera. È fondatore e direttore di PRC-Comunicare la scienza.

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